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La Vitamina D cura il Covid-19?

La Vitamina D cura il Covid-19?

Gli studi relativi al Covid-19, da quando ha messo a ferro e fuoco gli Stati di tutto il mondo, proseguono ininterrottamente. Origine, prevenzione, cura: gli ambiti di ricerca sono vasti e molteplici. Di recente, in particolare, gli scienziati si sono soffermati sulle probabili proprietà terapeutiche della vitamina D, la cui carenza sembra essere connessa alla maggiore probabilità di morte in caso di infezione da coronavirus.

Cos’è e a cosa serve la vitamina D

La vitamina D è di fondamentale importanza per il corpo umano poiché favorisce l’assorbimento intestinale di calcio e fosfato, due minerali indispensabili per la formazione delle ossa e dei denti. Se assunta in dosi appropriate, pertanto, contribuisce alla prevenzione dell’osteoporosi, e protegge dalle infezioni esterne, coordinando il ruolo dei globuli bianchi.

È un ottimo antiossidante e modulatore dell’umore, funzioni associabili, nello specifico, alla parte attiva della vitamina D, il colecalciferolo D3, come approfondito dall’articolo precedentemente pubblicato.
Se assunta insieme ad altri farmaci, inoltre, può partecipare alla cura di malattie come epatiti, polmoniti, infezioni intestinali. Proprietà che condivide anche con lo zinco. Minerale presente in modo naturale nell’organismo, incrementa l’assorbimento delle stesse vitamine e interferisce nella “duplicazione” dei virus del raffreddore, impedendo il loro proliferare all’interno del naso. Non è un caso, infatti, che sia presente in molti alimenti contenenti anche D3: pesce (soprattutto sardine, salmone, tonno, sgombro), carne, uova e alimenti grassi, quali latte, burro e formaggi.

Il livello di vitamina D, peraltro, è soggetto ad alterazioni che possono dipendere da fattori ambientali, come l’esposizione al sole o l’uso di creme protettive che bloccano la fotoconversione. Spesso la variazione è legata alla pigmentazione della pelle o all’abbigliamento. Possono incidere anche l’età, l’indice di massa corporea, il volume extracellulare, polimorfismi di geni coinvolti nella sintesi di recettori o enzimi. E le abitudini: fumo o terapie farmacologiche che ne riducono l’assorbimento e la trasformazione.

Cosa sono i coronavirus

I coronavirus, dal canto loro, rappresentano un’ampia famiglia di virus, chiamati così proprio per le punte a forma di corona presenti sulla superficie. Sono comuni a diverse specie di animali, ma possono evolversi e infettare l’uomo, causando malattie respiratorie, lievi o gravi: dal semplice raffreddore a sindromi più serie. Come accaduto col Covid-19, individuato, in prima istanza, dalle autorità sanitarie cinesi, secondo quanto dichiarato il 9 gennaio 2020 dall’OMS.

Il nuovo Coronavirus appartiene allo stesso gruppo di virus della Sindrome Respiratoria Acuta Grave (SARS) ma non è identico. Ad oggi non è ancora stata individuata la fonte ufficiale. Si ipotizza che abbia origine animale e che non sia stato costruito in laboratorio. Molto probabilmente, il serbatoio ecologico di SARS-CoV-2 risiede nei pipistrelli. Ma sono supposizioni in attesa di conferma e in continuo aggiornamento.

È il settimo coronavirus umano riconosciuto, i cui sintomi più comuni sono febbre, tosse secca, respiro corto, spossatezza. In caso di infezione avanzata, si riscontrano anche diarrea, perdita olfattiva o del gusto, fino a sfociare in polmoniti e insufficienze renali acute, causa dei numerosissimi decessi rilevati in tutto il mondo.

Sars-CoV-2 e Vitamina D, c’è un nesso?

A tal proposito, uno studio italiano condotto dall’Università di Torino, grazie alla collaborazione degli studiosi Giancarlo Isaia ed Enzo Medico, ha evidenziato come la maggior parte dei pazienti affetti da Covid-19 ricoverati in ospedale soffrisse anche di un’elevata prevalenza di ipovitaminosi D. L’analisi ha avuto come oggetto un numero considerevole di malati, stratificati in base alla gravità: ricoverati meno gravi; bisognosi di supporti respiratori; intubati.

Si è cercato di approfondire il possibile collegamento tra carenza di vitamina D e tasso di mortalità per coronavirus. Un’ipotesi che, di recente, ha trovato conferma nel nuovo studio del Queen Elizabeth Hospital Foundation Trust e dell’Università dell’East Anglia.

Gli esperti hanno effettuato un’indagine su ben 20 Paesi, confrontando la quantità dei decessi con il livello medio di vitamina D. Nelle fasce di popolazione più anziane, in cui questo risulta gravemente basso (sotto i 30nmol/l), il tasso di mortalità per Covid-19 è maggiore. Italia, Spagna, ma anche Svizzera, in particolar modo, presentavano, ai tempi della rilevazione, valori medi intorno ai 26 nmol/l e i 28 nmol/l.

Da qui la conclusione che la vitamina D possa avere un ruolo preventivo o terapeutico rispetto al SARS-CoV-2, così come per qualsiasi altra infezione respiratoria. Lo confermano anche i ricercatori delle Filippine, che, esaminando i pazienti Covid di tre ospedali dei Paesi dell’Asia meridionale, hanno scoperto che i casi critici erano 19 volte più probabili nelle persone con carenza di vitamina D.

Le ragioni di questa relazione potrebbero essere riconducibili al fatto che gli anziani (la cui percentuale di vittime è sempre cresciuta in maniera esponenziale) prendono poco sole. Ecco perché affetti frequentemente anche da malattie croniche come il diabete, la cardiopatia, l’Alzheimer, la sclerosi multipla. Il periodo dell’anno in cui si è diffuso il virus, peraltro, non ha favorito l’immagazzinamento e il rilascio nella pelle di vitamina D tramite raggi solari, come, invece, sarebbe accaduto in larga parte in estate.

Di contro, l’eccessiva abbronzatura gioca un ruolo di prim’ordine, ostacolandone la sintesi. Tanto che le stesse ricerche sopracitate hanno sottolineato come il minor numero di morti riscontrato nel Nord Europa sia legato proprio al fatto che in molti assumono integratori e che la potenza del sole è più bassa.

La vitamina D cura il Coronavirus?

In linea di massima, si può dire che la vitamina D non rappresenta una cura vera e propria in grado di immunizzare il Covid-19. Di certo, però, può contribuire al rafforzamento della nostra salute, facendo in modo che il virus perda la sua efficacia e la sua capacità di riprodursi nel corpo umano. Questo perché aumenta alcuni peptidi antimicrobici, proteine che hanno effetti antivirali.

La vitamina D, dunque, rappresenta un “elisir di lunga vita” per tutti, ma in circostanze delicate come quelle relative al contesto della diffusione del Coronavirus, diventa imprescindibile, in via precauzionale, soprattutto per chi è più in là con gli anni; per i medici e gli infermieri impegnati in prima linea nei reparti che accolgono pazienti affetti da malattie infettive; e per chi, per motivi dermatologici, non può esporsi al sole.

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